Studiare medicina in inglese, solo in inglese. È la cosiddetta «anglicizzazione» dell’Università, che sta contaminando anche la facoltà di Medicina dell’Università Statale sulla scia di Bocconi e Politecnico. È un allarme che è diventato tormentone da quasi dieci anni, da quando a Ravenna l’Accademia degli Incamminati presentò il «Manifesto agli Italiani per l’italiano», cui aderirono numerosi esponenti della cultura.
Non che si tratti di negare la necessità di un’internazionalizzazione degli studi universitari, di medicina come d’ingegneria, economia o biologia. È ovvio che l’ottima conoscenza della lingua inglese debba far parte obbligatoriamente della preparazione dei nuovi laureati in materie tecnico-scientifiche, e probabilmente anche dei laureati in scienze umanistiche, se vogliono affacciarsi sul mondo.
Nel caso del medico, lo richiede l’aggiornamento stesso, basato sulla partecipazione a convegni e a seminari internazionali e sulla necessaria consultazione della più qualificata letteratura scientifica, che ormai è quasi totalmente in inglese. Anche lo sviluppo di carriera, che augurabilmente porterà i nuovi medici a fare esperienza all’estero, non può prescindere dall’ottima conoscenza dell’inglese. Queste sono le premesse utili e ragionevoli, che non devono però cancellare la domanda di fondo: è davvero indispensabile che i corsi di laurea in medicina e chirurgia vengano svolti in inglese? ED È vero che i giovani stessi desiderino la «anglicizzazione» della facoltà di Medicina?